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Palestina globale

Ilan Pappé

Introduzione

Il 12 ottobre 2016, Sky Bird Black Owl ha dato alla luce Mni Wiconi (“l’acqua è vita”) a Standing Rock, nel campo allestito per opporsi alla costruzione dell’oleodotto Dakota Access, ritenuto lesivo della sovranità indigena e pericoloso per le risorse idriche locali. Nei ritratti mediatici, la neonata appare avvolta in un tessuto tradizionale con motivi nativi americani. Tuttavia, ben visibile accanto alla culla, si distingue anche una keffiah palestinese. Questa immagine segnala con forza la centralità assunta dalla Palestina all’interno delle lotte per la giustizia globale. La keffiah a scacchi bianchi e neri funge da indicatore simbolico del fatto che la Palestina non rappresenta più soltanto un progetto di liberazione nazionale, ma opera oggi come un dispositivo analitico per leggere le forme contemporanee del potere coloniale. Oltre a riaffermare l’eredità dell’internazionalismo, traendo ispirazione e offrendo ispirazione alle lotte anticoloniali, la Palestina agisce come doppio prisma: da un lato, incarna uno dei nodi più violenti del sistema globale di sfruttamento, espropriazione e sorveglianza razzializzata; dall’altro, come mostra l’estetica della keffiah di Mni Wiconi, rappresenta un punto di convergenza delle lotte indigene radicali per la terra e per la vita. All’estremo opposto di questo immaginario, si colloca un video generato dall'intelligenza artificiale e diffuso dal Presidente USA Donald Trump. Il video, corredato da un testo musicale che annuncia “niente più tunnel, niente più paure", fornisce una visione fantasmagorica e futuristica di una “Gaza Trump” mostrando una riviera costruita con petrodollari, dove Trump e il criminale di guerra Netanyahu sorseggiano cocktail in riva al mare, accanto a un raggiante Elon Musk, sullo sfondo di altisonanti grattacieli e piogge di dollari. Il video promette: “Trump vi libererà” e secondo i più classici canoni orientalisti e coloniali i Palestinesi (rimasti vivi) riemergono dall'oscurità nelle vesti di bambini poveri e sporchi che corrono verso lo scintillio della libertà capitalistica più sfrenata, i combattenti di Hamas, con copricapo verde, sono derisi nelle sembianze di danzatrici del ventre, mentre il paesaggio devastato e spogliato della sua popolazione e natura indigena si trasmuta in una moderna riviera, paradiso capitalista adornata da Tesla scintillanti e sovrastata da una statua dorata gigante del presidente statunitense. Oltre alla devastante oscenità di tale godimento imperiale, nel contesto della sofferenza e violenza genocida a cui è sottoposta la popolazione palestinese di Gaza da più di 17 mesi – il video restituisce perfettamente l'estetica di una fantasia coloniale/imperiale globale, e segnala la centralità della Palestina nel progetto globale di guerra, espropriazione e dominio, ma mostra anche come, insieme all’eliminazione della popolazione e paesaggio indigeni, si progetta l'eliminazione delle visione di giustizia radicale insita nelle lotte intersezionali di cui la Palestina è una fondamentale componente generativa. Queste due rappresentazioni antitetiche della Palestina oggi – da un lato elemento centrale nelle lotte indigene e per la giustizia globale, dall’altro oggetto di fantasie coloniali di annientamento – costituiscono un punto di partenza per interrogarsi sulla Palestina e sulla logica di eliminazione dei palestinesi come fatto globale. Come afferma anche Ilan Pappè, la Palestina è oggi teatro di alcune tra le forme più estreme e violente di cancellazione coloniale da parte di coloni insediatisi nel territorio e dei loro alleati, ma è anche – e forse non casualmente – un nodo cruciale per l’articolazione di movimenti (anticoloniali, neri, indigeni e abolizionisti) accomunati da rivendicazioni che affondano le proprie radici nella violenza strutturale della modernità coloniale occidentale – una violenza che si manifesta sia nei suoi residui storici sia nelle sue attuali configurazioni. Resta dunque aperta la domanda: quale immaginario decoloniale può emergere da tale convergenza? Ilan Pappé, in questo intervento (tenuto il 12 dicembre 2024 a Bologna nell’ambito del ciclo seminariale “Una congiuntura di guerra”), offre come sempre spunti importanti di riflessione e di speranza per un futuro decoloniale.

Ruba Salih

Israele come paradigma globale di dominio

Israele può essere considerato un paradigma per la gestione dei conflitti contemporanei? Per rispondere a questa domanda, è fondamentale comprendere il concetto di Israele globale, una storia lunga oltre 120 anni che si inserisce in un quadro più ampio di strategie geopolitiche. Nel dibattito accademico e nel mondo dell’attivismo, si è cercato di sottolineare come gli eventi del 7 ottobre 2023 e le conseguenze successive non possano essere analizzati senza considerare il contesto storico e politico in cui si inseriscono. Tuttavia, il riconoscimento di questo contesto viene spesso ostacolato, come dimostrato dalla reazione di Israele alle dichiarazioni del Segretario generale dell’ONU, António Guterres, il quale – dopo aver sottolineato la necessità di comprendere le radici storiche del conflitto – è stato oggetto di una richiesta di dimissioni da parte del governo israeliano. In diversi paesi europei, come la Germania, menzionare il contesto storico del conflitto è considerato una forma di sostegno al terrorismo, una narrazione che limita il dibattito e ostacola una comprensione più profonda della questione. Per comprendere Israele globale è necessario tornare alle origini del sionismo, nato nel XIX secolo come soluzioni europee al problema dell’antisemitismo, che culminò nell’Olocausto durante la Seconda Guerra Mondiale. Sebbene il problema fosse autentico, la soluzione adottata – ovvero la creazione di uno Stato ebraico in Palestina – non fu imposta solo come risposta alle persecuzioni subite dagli ebrei, ma anche come un progetto coloniale sostenuto da potenze europee. L’idea di uno stato ebraico europeo nel cuore del mondo arabo fu vista fin dall’inizio come un’impresa che poteva essere realizzata solo con l’uso della forza. Senza il sostegno militare e politico di potenze occidentali, la comunità ebraica in Palestina non avrebbe potuto consolidare la propria presenza e portare avanti le politiche di colonizzazione e pulizia etnica. L’alleanza globale a sostegno di Israele è stata determinante sin dalle sue origini. Inizialmente formata da cristiani evangelici che credevano nella necessità di uno stato ebraico per la realizzazione delle profezie bibliche, è stata poi sostenuta dall’imperialismo britannico – che aveva interesse nel mantenere il controllo su territori un tempo appartenenti all’Impero ottomano. Successivamente, durante la Guerra fredda, gli Stati Uniti hanno assunto il ruolo di principali alleati di Israele, utilizzandolo come avamposto strategico in Medio Oriente. Con il tempo, l’alleanza si è estesa anche al neoliberismo e al capitalismo globale, coinvolgendo multinazionali e gruppi di potere con interessi economici e geopolitici nella stabilità di Israele. Questa rete di sostegno ha garantito a Israele l’immunità internazionale, permettendogli di continuare le sue politiche di occupazione e oppressione senza subire reali conseguenze. Negli ultimi 14 mesi, la solidità di questa alleanza globale è stata ulteriormente confermata. Il fattore più rilevante non è stato solo il 7 ottobre e le risposte di Israele, ma anche il silenzio e l’indifferenza dell’Europa di fronte agli eventi. Mentre il sostegno degli Stati Uniti era prevedibile, la mancata reazione dell’Europa ha messo in evidenza come il continente non abbia mai realmente affrontato i propri errori storici. La riluttanza a risolvere il problema ebraico all’interno dei propri confini ha portato all’imposizione di uno stato coloniale altrove; l’incapacità di fare i conti con questo passato ha contribuito a una politica europea caratterizzata dall’inerzia e dalla mancanza di chiarezza morale. Il razzismo, che in passato ha colpito gli ebrei, oggi si manifesta in altre forme e continua a influenzare la scena politica europea. L’elemento cruciale per il futuro non è solo la resistenza palestinese, ma il possibile indebolimento dell’alleanza globale che sostiene Israele. Se questa rete di supporto venisse meno, lo Stato israeliano non potrebbe reggere per più di dieci anni. Ogni fase della sua esistenza è stata possibile grazie al sostegno internazionale: senza le baionette britanniche, la potenza militare americana e l’appoggio economico delle multinazionali, la sua politica coloniale non avrebbe potuto avere successo. La comunità internazionale, concedendo a Israele l’immunità per le sue azioni, ha reso possibile l’occupazione della Cisgiordania e la repressione dei palestinesi. Per questo motivo, il vero ostacolo alla decolonizzazione della Palestina non è solo Israele stesso, ma l’intero sistema di alleanze che ne garantisce la sopravvivenza. Infine, la situazione attuale dimostra come l’Europa non abbia mai realmente chiuso i capitoli della sua storia legati alla Seconda Guerra Mondiale e al colonialismo. Questo aspetto si riflette anche in altri scenari geopolitici, come la guerra in Ucraina, che viene spesso analizzata senza considerare il complesso passato storico della regione. La crisi di Gaza, quindi, non è solo un problema regionale ma rappresenta una questione globale che mette in luce le contraddizioni del sistema politico europeo e la sua incapacità di affrontare le proprie responsabilità storiche. La speranza è che questo momento di crisi possa portare a una maggiore consapevolezza e a un cambiamento delle dinamiche di potere che hanno reso possibile il mantenimento dello status quo in Palestina.

Copertina del primo numero di Teiko

Protes Donald Trump, Warga Cape Town Kibarkan Bendera Palestina. Foto: REUTERS/Esa Alexander

Il movimento per la Palestina globale

Cosa significa Palestina globale di fronte all’Israele globale, a questo progetto che da 120 anni continua a esistere con il sostegno di paesi come l’Italia e molti altri? Negli ultimi 14 mesi, abbiamo visto quanto sia sostenibile questo progetto, anche mentre commette un genocidio sotto i nostri occhi, e ora cerca di espandere i propri confini. Israele non ha intenzione di ritirarsi dalle zone della Siria che occupa, né dal Libano meridionale: sta già pianificando di inviare coloni nel nord di Gaza, nella Siria occidentale, in altre aree… L’attuale leadership sionista percepisce una rara finestra di opportunità per espellere del tutto la Palestina, non solo come popolo, ma anche come idea. Ecco perché attaccano l’UNRWA: perché vogliono cancellare ogni traccia della Palestina. Ci sono diverse ideologie alla base di tutto questo, tra cui il sogno di un "Israele biblico", che probabilmente non è mai esistito, ma che vogliono resuscitare, temuto e rispettato da tutta la regione. In questo hanno l’appoggio di milioni di fanatici negli Stati Uniti, che credono a questa visione da secoli e ora potrebbero tornare al governo con Trump. È una lotta che richiede strategia a lungo termine. Serve pragmatismo per fermare il massacro attuale, ma serve anche una visione per costruire il futuro. Per me, Palestina globale significa due cose. La prima è la connessione tra la lotta per la Palestina e tutte le altre lotte contro l’oppressione, che siano economiche, ecologiche, etniche o politiche. La lotta palestinese è simbolo di una lotta più grande, e questo spiega la mobilitazione di massa che abbiamo visto in tutto il mondo nell’ultimo anno e mezzo. Essere uno dei milioni di manifestanti per la Palestina a Londra è stata un’esperienza che dà speranza. Si può analizzare tutto in modo freddo e dire che è populismo, globalismo, ma non ti senti solo e non ti senti impotente. La seconda cosa è più profonda, ed è importante soprattutto per il mondo accademico: la storia ci insegna che la fine dei regimi oppressivi non avviene solo grazie all’attivismo, ma anche per processi storici più grandi, che spesso non possiamo controllare. E qui sta la nostra responsabilità: capire questi processi, saperli leggere e saperli gestire. Prendiamo un esempio negativo: il Sudafrica. La fine della Guerra Fredda ha permesso agli Stati Uniti di unirsi al regime di sanzioni contro l’apartheid, e questo ha accelerato la caduta del regime. Ma oggi vediamo che il Sudafrica ha ereditato un’apartheid economica. Per questo dobbiamo essere attenti: un cambiamento politico senza un vero progetto sociale può lasciare un vuoto, e nel vuoto si genera caos. E ora veniamo ad Israele. Da storico, vi dico che Israele si sta sgretolando. Il Mashriq – l’intero Mediterraneo orientale – è in crisi: Siria, Libano, Giordania, Iraq, Israele stesso. Sono Stati artificiali, imposti dal colonialismo europeo, e oggi stanno collassando. Ma i crolli sono lenti, e i regimi che crollano diventano ancora più violenti. Lo vediamo chiaramente. Ma il crollo di Israele non deve significare caos. Non siamo spettatori: abbiamo un ruolo attivo. Oggi Israele non è più una società coesa, la sua economia dipende interamente dagli Stati Uniti, la fiducia nell’esercito è ai minimi storici, e sempre più ebrei nel mondo – soprattutto i giovani americani – non vedono più il sionismo come parte della loro identità. Dall’altra parte, la gioventù palestinese ha una visione unitaria, un’idea chiara di futuro. Questo processo porterà alla dissoluzione di Israele e alla nascita, si spera, di una Palestina libera. Israele globale sta vivendo il suo ultimo capitolo. Ma i capitoli della storia non durano un anno o due: sono processi lunghi. Tuttavia, non stiamo assistendo all’inizio di un’altra catastrofe per la Palestina. Stiamo vivendo l’ultimo capitolo della Nakba. È il più brutale, ma è l’ultimo. Ecco perché dobbiamo essere strategici e avere speranza. Un’ultima riflessione politica. Guardiamo all’Europa, all’Italia: non ricordo di aver mai visto una classe politica di qualità così bassa, così egocentrica, così distaccata dai veri problemi della società. Questo fa bene a Israele, ma è un disastro per la Palestina. E poi c’è la sinistra. Troppo spesso dimentichiamo quanto la sinistra, e persino il Partito Comunista, abbiano sostenuto la creazione di Israele. Senza l’Unione Sovietica, senza le armi sovietiche, Israele non esisterebbe. Per anni la sinistra ha visto Israele come un progetto socialista nel cuore del mondo arabo. Non ha mai fatto i conti con questa complicità. E oggi deve anche ripensare il suo rapporto con il secolarismo, perché non possiamo imporre un colonialismo della modernità in nome di valori occidentali presunti universali. Dobbiamo sfruttare l’opportunità storica che il crollo di Israele ci offrirà. Per costruire non solo una Palestina libera, ma anche una Palestina giusta, che sia un faro per tutta la regione. Per questo dobbiamo essere strategici, pragmatici e determinati. Ogni giorno, anche quando non vediamo i risultati immediati, stiamo contribuendo ad un mondo migliore per le generazioni future.

Copertina del primo numero di Teiko

© Middle East Monitor